Agostino, Santo.
Sant'Agostino La figura storica Per la prima volta nella personalità di Agostino la speculazione teologica cessa di essere puramente oggettiva, come si era conservata anche nelle più potenti personalità nella patristica greca, per saldarsi all'uomo stesso che la istituisce. Il problema teologico è in S. Agostino il problema dell'uomo Agostino: il problema della sua dispersione e della sua inquietudine, il problema della sua crisi e della sua redenzione, della sua ragione speculante e della sua opera di vescovo. Ciò che Agostino ha dato agli altri è ciò che egli ha conquistato per se stesso. La suggestione e la forza del suo insegnamento, che non sono diminuite attraverso i secoli, per quanto siano mutati i termini del problema, deriva appunto dal fatto che in tutta la sua speculazione, anche negli aspetti che sembrano più lontani da ogni riferimento immediato alla vita, egli non ha cercato e raggiunto se non la chiarezza su di sé e sul suo proprio destino, il significato autentico della stia vita interiore. Il centro della speculazione di Agostino coincide veramente con il centro della sua personalità. L;atteggiamento della confessione non è limitato solo allo scritto famoso, ma è l'atteggiamento costante del pensatore e dell'uomo d'azione che, qualsiasi cosa dica o intraprenda, non ha altro scopo che di venire in chiaro con se stesso e di essere quello che deve essere. Per ciò egli dichiara di non volere conoscere altro che l'anima e Dio e si mantiene costantemente fedele a questo programma. L'anima: cioè l'uomo interiore, l'io nella semplicità e verità della sua natura. Dio: cioè l'essere nella sua trascendenza e nella sua normatività senza del quale non è possibile riconoscere la verità dell'io. Certamente anche in questa radicale interiorizzazione della ricerca filosofica Agostino ha predecessori; e tali predecessori sono «i Platonici» ai quali spesso si richiama nelle sue opere e tra essi specialmente
Platino.Ma per i Neoplatonici il ritorno a se stesso, l'atteggiamento
dell'introspezione, può essere solo privilegio del saggio; per S. Agostino può
essere proprio di ogni uomo. Agostino ha pure raccolto il meglio della
speculazione patristica precedente; ed i fondamentali concetti teologici, oramai
già acquisiti dalla speculazione e fatti propri dalla Chiesa, non subiscono per
opera sua sostanziali sviluppi. Ma si arricchiscono di un calore e di un
significato umano che prima non avevano, diventano elementi di vita interiore
per l'uomo giacché tali sono per lui, per S. Agostino. Giacché in lui il pensatore vive tutto nella sfera della religiosità, la quale necessariamente riconosce a Dio soltanto l'iniziativa della ricerca e trova quindi la sua migliore espressione nella parola: Dio solo è la nostra possibilità. La vita AURELIO AGOSTINO nacque nel 354 a Tagaste nell'Africa romana. Suo padre Patrizio era pagano, sua madre Monica cristiana ed esercito sul figlio una profonda influenza. Trascorse la fanciullezza e l'adolescenza tra Tagaste e Cartagine; di temperamento ardente, insofferente ai freni, condusse in questo periodo una vita disordinata e dispersa, di cui si accusò aspramente nelle Confessioni. Coltivava però gli studi classici specialmente latini e si occupava con passione di grammatica, fino a ritenere (come confessa con orrore, Conf., 1, 18) un solecismo più grave di un peccato mortale. Verso i 19 anni la lettura dell'Ortensio di Cicerone lo trasse alla filosofia. L'opera di Cicerone (andata perduta) era una esortazione alla filosofia che seguiva da vicino le tracce del Protrettico di Aristotele. In virtù di essa S. Agostino, dall'entusiasmo per le questioni formali e grammaticali, fu rivolto all'entusiasmo per i problemi del pensiero e per la prima volta indirizzato alla ricerca filosofica. Aderì allora (374) alla setta dei Manichei. Dai 19 anni cominciò ad insegnare retorica a Cartagine e tenne il suo insegnamento in questa città sino ai 29 anni, tra amori di donne e affetti di amici, di cui si accusò e pentì egualmente in seguito. A 26 o 27 anni compose il suo primo libro Sul bello e sul conveniente (De pulcro et apto) andato perduto. Il suo pensiero si andava maturando: lesse e intese da sé il libro di Aristotele Sulle categorie ed altri scritti e intanto formulava i primi dubbi sulla verità del manicheismo, dubbi che si confermarono quando vide che neppure Fausto, il più famoso manicheo dei suoi tempi, sapeva risolverli. A 29 anni, nel 383, si recò a Runa con l'intenzione di tenere là il suo insegnamento di retorica; era mosso dalla speranza di trovarvi una scolaresca meno turbolenta e più preparata di quella cartaginese e forse anche dall'ambizione di conseguirvi successo e denaro. Ma le sue speranze non si realizzarono e dopo un anno si recò a Milano a tenervi l'insegnamento ufficiale di retorica che aveva ottenuto dal prefetto Simmaco. L'esempio e la parola del vescovo Ambrogio lo persuasero della verità del cristianesimo e divenne catecumeno. A Milano lo aveva raggiunto la madre, la cui influenza ebbe importanza decisiva nella crisi spirituale di Agostino. La lettura degli scritti di Plorino nella traduzione di Mario Vittorino, un famoso retore che si era convertito al cristianesimo, tornì ad Agostino l'orientamento definitivo. Non trovo nei libri dei Neoplatonici insegnata l'incarnazione del Verbo e quindi la via dell'umiltà cristiana, ma vi trovò affermata e dimostrata chiaramente l'incorporeità e l'incorruttibilità di Dio e ciò lo libero detinitivamente dal materialismo al quale era rimasto sin allora attaccato, fino a credere che l'universo fosse pieno di Dio al modo di una gigantesca spugna che occupi il mare (Conf., VII, 5). Nell'autunno del 386 Agostino lasciò l'insegnamento e si ritirò, con una piccola schiera di parenti e di amici, nella villa di Verecondo, a Cassiciaco presso Milano. Dalla meditazione in questa villa e dalle conversazioni con gli amici nacquero le prime sue opere: Contro gli Accademici, Sull'ordine, Sulla beatitudine, Soliloqui. Il 25 aprile del 387 riceveva il battesimo dalle mani di Ambrogio. Egli divenne allora certo che la sua missione era quella di diffondere nella sua patria la sapienza cristiana; pensò quindi al ritorno. Ad Ostia, nell'arresa dell'imbarco, trascorse con la madre giorni d'intenso godimento spirituale discorrendo con lei di questioni religiose; ma lì Monica morì. Da quel momento la vita di S. Agostino fu una continua ricerca della verità e una continua lotta contro l'errore. Dopo una nuova permanenza a Roma, era ritornato a Tagaste; nel 391 fu ordinato prete; nel 395 fu consacrato vescovo di lppona. La sua attività fu rivolta allora non solo a difendere e a chiarire i principi della fede, mediante una ricerca di cui la fede è più il risultato che il presupposto, ma anche a combattere i nemici della fede e della Chiesa: il manicheismo, il donatismo e il pelagianismo. IL sacco di Roma perpetrato nel 410 dai Goti di Alarico aveva ridato attualità alla vecchia tesi che la sicurezza e la forza dell'impero romano fossero legati al paganesimo, e che il cristianesimo rappresentasse per esso un elemento di debolezza e di dissolvimento. Contro questa tesi S. Agostino compose, tra il 412 e il 426, il suo capolavoro: La città di Dio. Ma intanto un flagello analogo, l'invasione dei Vandali, si abbatrè nel 428 sull'Africa romana. Già da tre mesi le truppe di Genserico assediavano Ippona, quando, il 28 agosto del 430, Agostino moriva. Le opere I primi scritti rimastici di Agostino sono quelli composti a Cassiciaco:
Contro gli Accademici, Sulla beatitudine, Sull'ordine, Soliloqui. Di una
esposizione completa di tutte le arti liberali condusse a termine, a Tagaste,
solo la parte che riguarda la Musica. A Roma, in attesa della partenza per
l'Africa, compose lo scritto Sulla quantità dell'anima, intorno ai rapporti tra
anima e corpo. Ritornato a Tagaste termini lo scritto Sul libero arbitrio,
cominciato a Roma, compose quello Sulla «Genesi» contro i Manichei, il dialogo
Sul maestro e il libro Sulla vera religione che è tra i suoi scritti filosofici
più notevoli. La polemica contro i Manichei lo occupò lungamente. I suoi scritti
polemici contro la sètta sono numerosi (Sull'utilità di credere, composto nel
391 ad Ippona, Sulle due anime, Contro Fortunato, Contro Adimanto, Contro
Fausto, Sulla natura del bene, ed altri). Insieme a queste e ad altre opere polemiche minori, egli componeva
l'importante scritto Sulla Trinità, quello Sulla dottrina cristiana, quello
esegetico Sulla. Genesi alla lettera e la sua opera più vasta: La città di Dio.
Intorno al 400 compose i (3 libri delle Confessioni che sono l'opera chiave
della sua personalità di pensatore. Carattere della ricerca agostiniana S. Agostino è stato chiamato il Platone cristiano. Questa definizione è vera non tanto perché si trovano nella dottrina di lui spunti e motivi dottrinali del Platone autentico e del neoplatonismo, quanto perché egli rinnova nello spirito del cristianesimo quella ricerca che era stata la realtà fondamentale della speculazione platonica. La fede è, per Agostino, al termine della ricerca, non al suo inizio. Certamente la fede è la condizione della ricerca, che non avrebbe né direttiva né guida senza di essa; ma la ricerca si rivolge verso la sua condizione e cerca di chiarirla con l'approfondimento incessante dei problemi che suscita. Perciò La ricerca trova il fondamento e la guida nella fede e la fede trova il consolidamento e l'arricchimento nella ricerca. Da un lato, movendo a chiarire ed approfondire la propria condizione, la ricerca si estende e si rinvigorisce perché si avvicina alla verità e si fonda in essa, dall'altro la fede stessa attraverso la ricerca viene raggiunta e posseduta nella sua realtà più ricca e si consolida nell'uomo trionfando del dubbio. Nulla è così contrario allo spirito di Agostino come una pura gnosi, una conoscenza puramente razionale del divino, se non forse l'affermazione esasperata della irrazionalità della fede, quale si trova in Tertulliano. Per Agostino, la ricerca impegna tutto l'uomo, non il solo intelletto. La verità cui egli tende è anche, secondo la parola evangelica, la via e la vita: cercarla significa cercare la vera via e la vera vita. Perciò non è solo la mente che ne ha bisogno, ma l'uomo intero, ed essa deve dare appagamento e riposo a tutte le esigenze dell'uomo. Dall'altro lato, la ricerca agostiniana si impone una disciplina rigorosa: non si abbandona facilmente a credere, non chiude gli occhi davanti ai problemi e alle difficoltà della fede, non tenta di evitarli e di eluderli, ma li affronta e li considera incessantemente, ritornando sulle proprie soluzioni per approfondirle e chiarirle. La razionalità della ricerca non è, per S. Agostino, il suo organizzarsi a sistema, ma piuttosto la sua disciplina interiore, il rigore del procedimento che non si arresta di fronte al limite del mistero, ma fa di questo limite e dello stesso misuro un punto di riferimento e una base. L'entusiasmo religioso, lo slancio mistico verso la verità non agiscono in lui come forze contrarie alla ricerca ma rinvigoriscono la ricerca stessa, le danno un valore e un calore vitale. Di qui deriva l'enorme potenza di suggestione che la personalità di Agostino ha esercitato non solo sul pensiero cristiano e medievale, ma anche sul pensiero moderno e contemporaneo. Lo scopo della ricerca: Dio e l'anima All'inizio dei Soliloqui (1, 2), che sono tra le prime sue opere, Agostino così dichiarava lo scopo della sua ricerca: «lo desidero conoscere Dio e l'anima. Nient'altro, dunque? Nient'altro, assolutamente». E tali sono stati in realtà i termini verso i quali si è costantemente indirizzata la sua speculazione dal principio alla fine. Ma Dio e l'anima non richiedono per Agostino due indagini parallele o diverse. Dio infatti è nell'anima e si rivela nella più riposta interiorità dell'anima stessa. Cercare Dio significa cercare l'anima e cercare l'anima significa ripiegarsi su se stesso, riconoscersi nella propria natura spirituale, confessarsi. L'atteggiamento della confessione, che ha dato origine alla più famosa delle opere agostiniane, è in realtà sin dall'inizio l'atteggiamento fondamentale di S. Agostino, quello che egli costantemente mantiene ed osserva in tutta la sua attività di filosofo e di uomo di azione. Questo atteggiamento non consiste nel descrivere a sé e agli altri le vicende della propria vita interna od esterna, ma nel portare alla chiarezza tutti i problemi che costituiscono il nucleo della propria personalità. Le stesse Confessioni non sono un'opera autobiografica: l'autobiografia ne è un elemento, che fornisce i punti di riferimento dei problemi nella vita di S. Agostino, ma non ne è il carattere dominante, tanto che a un certo punto, con il libro X, ogni accenno autobiografico cessa e S. Agostino passa negli altri tre libri a trattare problemi di pura speculazione teologica. Lo sforzo di S. Agostino è diretto in quest'opera a far luce sui problemi che costituiscono la sua stessa esistenza. Quando giunge in chiaro della natura dell'inquietudine che ha dominato la prima parte della sua vira e che l'ha condotto a disperdersi e a divagare disordinatamente, egli si accorge che in realtà non ha mai deside rato altro che la verità, che la verità è Dio stesso, che Dio si trova nell'interno dell'uomo. «Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell'interno dell'uomo abita la verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso» (De vera rel., 39). Soltanto il ritorno a se stesso, il rinchiudersi nella propria interiorità è veramente l'aprirsi alla verità e a Dio. Bisogna raggiungere il più intimo e nascosto nucleo dell'io per rintracciare al di là di esso («trascendi anche te stesso») la verità e Dio. Nella cerchia di questa interiorità che si trascende e si apre a Dio si ritrova una certezza fondamentale che elimina il dubbio. Non a caso la carriera di scrittore di S. Agostino si è iniziata con una confutazione dello scetticismo accademico. Non si può rimaner fermi, come pretendevano gli Accademici, al dubbio e alla sospensione dell'assenso. Chi dubita della verità è certo di dubitare, cioè di vivere e di pensare; consegue quindi, nel dubbio stesso, una certezza che lo sottrae al dubbio e lo rapporta alla verità. Questo movimento di pensiero per cui il dubbio stesso viene assunto a fondamento di una certezza, che non è immobile, perché significa solo che si può e si deve cercare, si ritroverà agli inizi della filosofia moderna in Cartesio. In Agostino, esso significa che la vita interiore dell'anima non può fermarsi al dubbio, che perfino il dubbio consente all'anima di trascendersi e di muovere verso la verità. La verità è dunque nello stesso tempo interiore all'uomo e trascendente. L'uomo non può cercarla se non chiudendosi in se stesso, riconoscendosi per quello che è, confessandosi con assoluta sincerità. Ma non può riconoscersi né confessarsi se non per la verità e di fronte alla verità: la quale dunque si afferma proprio in quell'atto in tutta la sua trascendenza come guida e luce della ricerca. La verità si rivela trascendente proprio a colui che la cerca, come va cercata, nell'interiorità della coscienza. La verità difatti non è l'anima, ma la luce che dall'alto guida e richiama l'anima alla sincerità del riconoscimento di sé e all'umiltà della confessione. La verità non è la ragione ma è la legge della ragione cioè il criterio di cui la ragione si serve per giudicare le cose. Se la ragione è superiore alle cose di cui giudica, la legge in base alla quale essa giudica è superiore alla ragione. Il giudice umano giudica in base alla legge, ma non può giudicare la legge stessa. Il legislatore umano, se è onesto e saggio, giudica delle leggi umane ma consulta, nel far questo, la legge eterna della ragione. Ma questa legge sfugge ad ogni giudizio umano, perché è la verità stessa nella sua trascendenza (De vera rel., 30-31). La ricerca di Dio La verità è Dio: questo è il principio fondamentale della teologia agostiniana. Il carattere fondamentale della verità è nel fatto che essa ci rivela ciò che è, in contrasto al falso che fa apparire o credere ciò che non è. La verità è la rivelazione dell'essere come tale. Essa è l'essere che si rivela, l'essere che illumina la ragione umana della sua luce e le fornisce la norma di ogni giudizio, la misura di ogni valutazione In questo rivelarsi dell'essere all'interiorità dell'uomo, in questo suo valere di fronte all'uomo come il principio illuminante della sua ricerca è la verità. Ma l'Essere che si rivela e parla all'uomo, l'Essere che è Parola e Ragione iluminante è Dio nel suo Logos o Verbo (De vera rel., 36). La verità non è dunque che il Logos o Verbo di Dio. La prima e fondamentale determinazione teologica del Dio cristiano scaturisce dunque dall'impianto stesso della ricerca agostiniana. Proprio in quanto l'uomo ricerca Dio nell'interiorità della sua coscienza, Dio è per lui Essere e Verità, Trascendenza e Rivelazione, Padre e Logos. Dio si rivela come trascendenza all'uomo che incessantemente e amorosamente lo cerca nella profondità del suo io: ciò vuol dire che Egli non è essere se non in quanto è insieme manifestazione di sé come tale, cioè Verità: che non è trascendenza, se non in quanto è insieme rivelazione, che non è Padre se non in quanto è insieme Figlio, Logos o Verbo che muove incontro all'uomo per trarlo a sé. Le due prime persone della Trinità si manifestano all'uomo nella ricerca; e così l'altra, lo Spirito Santo, che è l'amore. Dio è Amore oltre che Verità; amore e verità vanno congiunti perché non ci può essere amore se non per la verità e nella verità. Amare Dio significa amare l'Amore, ma non si può amare l'Amore se non si ama chi ama. Non è amore quello che non ama nessuno. L'uomo perciò non può amare Dio, che è l'Amore, se non ama l'altro uomo. L'amore fraterno tra gli uomini «non solo deriva da Dio ma è Dio stesso» (De trin., VIII, 12). Dio si rivela come Verità solo a chi cerca la verità, Dio si offre come Amore solo a chi ama. La ricerca di Dio non può esser dunque solo intellettuale, è anche bisogno di amore: essa muove dalla domanda fondamentale: «Che cosa amo, o Dio, quando amo te?» (Coni., X, 6). Qui è il nodo della ricerca diretta all'anima e della ricerca diretta a Dio, nodo che è il centro della personalità di Agostino. Non è possibile cercare Dio se non profondandosi nella propria interiorità, se non confessandosi e riconoscendo il vero se stesso; ma questo riconoscimento è lo stesso riconoscimento di Dio come verità e trascendenza. Se l'uomo non cerca se stesso non può riconoscere Dio. L'intera esperienza della vita di Agostino si esprime in questa formula, giacché solo al di là di sé, in ciò che trascende la parte più alta dell'io, si intravede, per la stessa impossibilità di raggiungerla, la realtà dell'essere trascendente. Da un lato, le determinazioni di Dio si radicano nella ricerca giacché Dio si rivela come trascendenza e verità solo nella ricerca; dall'altro lato la ricerca si fonda sulle determinazioni della trascendenza divina. Certo, l'uomo non può riconoscere la trascendenza se non cerca, ma non può cercare se la trascendenza non lo chiama a sé, e non lo sorregge rivelandoglisi nella sua imperscrutabilità. Dio, proprio nella sua trascendenza, è il trascendentale dell'anima, la condizione della sua ricerca, di ogni sua attività. Ed è, nello stesso tempo, la condizione dei rapporti interumani. Dio è Amore e condiziona e rende possibile ogni amore. Ma non è possibile riconoscerlo come amore, e quindi amarlo, se non si ama; e non può amarsi che l'altro uomo. Amare l'Amore, significa, in primo luogo, amare; e non si può amare che l'uomo. L'amore fraterno, la carità cristiana, condiziona il rapporto tra Dio e l'uomo; e nello stesso tempo ne è condizionato. Anche qui l'Amore divino, lo Spirito Santo, è nella sua trascendenza, il trascendentale della ricerca che porta l'uomo versa l'altro uomo. II tema dell'intera speculazione di S. Agostino è uno solo ed è il tema della sua vita: il rapporto tra l'anima e Dio, tra la ricerca umana e il suo termine trascendente e divino. Ma questo rapporto si atteggia in S. Agostino religiosamente, non filosoficamente. Il suo accento non batte sulla possibilità umana della ricerca del trascendente ma sulla presenza del trascendente all'uomo Come possibilità della ricerca. L'iniziativa è abbandonata a Dio. Proprio mentre l'uomo si tende nell'iniziativa della ricerca e brucia nell'ardore di essa le scorie della sua umanità inferiore, deve riconoscere che l'iniziativa non è sua, ma è di Dio, che egli giunge a rapportarsi alla trascendenza divina solo perché essa gli si rivela, giunge ad amare Dio solo perché Dio lo ama. Lo sforzo filosofico si trasforma in umiltà religiosa: la ricerca diventa fede. La libertà dell'iniziativa filosofica appare come grazia. L'esigenza di riportare ogni sforzo, ogni valore umano alla grazia divina non è un puro risultato della polemica contro i pelagiani, un risultato negatore dei più pròfondi motivi agostiniani, ma è esigenza intrinseca della speculazione agostiniana. Tale esigenza è fondata sul rapporto con cui nella personalità di Agostino si annodano la filosofia e la religione, la ricerca e la fede: rapporto di tensione, per il quale esse si richiamano, e nello stesso tempo si oppongono, l'una all'altra. L'uomo La possibilità di cercare Dio e di amarlo è radicata nella stessa natura dell'uomo. Se fossimo animali, potremmo amare soltanto la vita carnale e gli oggetti sensibili. Se fossimo alberi, non potremmo amare nulla di ciò che ha movimento e sensibilità. Ma siamo uomini, creati ad immagine del nostro creatore che è la vera Eternità, l'eterna Verità, l'eterno e vero Amore; abbiamo dunque la possibilità di ritornare a Lui, in cui il nostro essere non avrà più morte, il nostro sapere non avrà più errori, il nostro amore non avrà più offese (De civ. Dei, X1, 28). Questa possibilità di ritornare a Dio nella triplice forma della sua natura, è inscritta nella triplice forma della nature umana, in guanto immagine di Dio. «lo sono, io conosco, io voglio. Sono in guanto so e voglio; so di essere e di volere; voglio essere e sapere. Veda chi può come in queste tre cose ci sia una vita inseparabile, un'unica vita, un'unica mente, un'unica essenza e come la distinzione sia inseparabile e, tuttavia, ci sia» (Cunf., XIII, 11 ). Sono i tre aspetti del 'uomo che si rivelano nelle tre facoltà dell'anirna umana, la rnemoria, l'intelligenza e la volontà, le quali insieme, e ognuna per sé, costituiscono la vita, la mente e la sostanza dell'anima. «lo, dice Agostino (De trias., X, 18), ricordo di aver memoria, intelligenza e volontà; intendo di intendere, di volere e di ricordare e voglio volere, ricordare ed intendere». E ricordo tutta la mia memoria, tutta l'intelligenza e tutta la volontà e similmente intendo e voglio tutte queste tre cose; le quali dunque coincidono in pieno e, pur nella loro distinzione, costituiscono un'unità, una sola vita, una sola mente e una sola essenza. In questa unità dell'anima che si differenzia nelle sue facoltà autonome, ognuna delle quali comprende le altre, è l'immagine della trinità divina: immagine impari, ma pur sempre immagine. La struttura stessa dell'uomo interiore rende dunque possibile la ricerca di Dio. Che l'uomo sia fatto ad immagine di Dio significa dunque che l'uomo può cercare Dio ed amarlo e rapportarsi all'essere di lui. Dio ha creato l'uomo affinché egli sia, giacché l'essere, anche in grado minore, è sempre un bene e il supremo Essere è il supremo Bene; ma l'uomo può allontanarsi e decadere dall'essere e in tal caso pecca. La costituzione dell'uomo come immagine di Dio, se gli dà la possibilità di rapportarsi a Dio, non gli garantisce la realizzazione necessaria di questa possibilità. L'Uomo è infatti in primo luogo l'uomo vecchio, l'uomo esteriore o carnale, che nasce e cresce, invecchia e muore. Ma in secondo luogo può essere anche uomo nuovo o spirituale, può rinascere spiritualmente e riuscire ad aggiogare l'anima alla legge divina. Anche quest'uomo nuovo ha le sue età che però non sono date dal trascorrere del tempo, ma dal suo avvicinarsi progressivo al divino. (De vera rel., 26). Ogni individuo è per sua natura un uomo vecchio, ma deve diventare un uomo nuovo, deve rinascere alla vita spirituale. Questa rinascita gli si presenta come l'alternativa fra cui deve scegliere: o vivere secondo la carne e indebolire e rompere il proprio rapporto con l'essere, cioè con Dio e cadere nella menzogna e nel peccato; o vivere secondo lo spinto rinsaldando il proprio rapporto con Dio e prepararsi a partecipare alla sua stessa eternità (De civ. Dei, XIV, I, 4). Ma la prima scelta non è veramente una scelta né una decisione. La vera scelta è quella con cui l'uomo decide di aderire all'essere, cioè di rapportarsi a Dio. La causa del peccato, così degli angeli ribelli a Dio come degli uomini, è una sola: la rinunzia a quell'adesione. «La causa della beatitudine degli angeli buoni è che essi aderiscono a ciò che veramente è; mentre la causa della miseria degli angeli cattivi è che essi si sono allontanati dall'essere e si sono rivolti a se stessi che non sono l'essere. Il loro vizio fu dunque quello della superbia» (Ib., Xll, 6). Proprio questa superbia della volontà che si distoglie dall'essere e si attacca a ciò che è da menu dell'essere è il peccato. Il quale perciò non ha una causa efficiente ma solo una causa deficiente: non è una realizzazione (effectio) ma una defezione (defectio). E rinunzia a ciò che è sommo per adattarsi a ciò che è inferiore. Voler trovare le cause di tale defezione è come voler vedere le tenebre o udire il silenzio: esse non si possono conoscere che ignorandole, mentre conoscendole si ignorano (Ib., XII, 7). Il problema della creazione e del tempo In quanto è Essere, Dio è il fondamento di tutto ciò che è; è dunque il creatore di tutto. E difatti la mutevolezza del mondo che ci sta intorno dimostra che esso non è l'essere: ha dovuto dunque essere creato e ha dovuto essere creato da un Essere eterno (Conf., XI, 4). Dio ha creato tutto attraverso la Parola, ma la parola di cui parla il racconto della Genesi non è la parola sensibile, ma il Logos o Figlio di Dio, che è coeterno con lui (Ib., XI, 7). Il Logos o Figlio ha in sé le idee, cioè le forme o le ragioni immutabili delle cose, che sono eterne come eterno è egli stesso; ed in conformità di tali forme o ragioni sono formate tutte le cose che nascono e muoiono (De div. quaest. 83, q. 46). Queste forme o idee non costituiscono dunque, come voleva Platone, un mondo intellegibile, ma l'eterna ed immutabile Ragione attraverso la quale Dio ha creato il mondo. Separare il mondo intellegibile da Dio significherebbe ammettere che Dio sia privo di ragione nella creazione del mondo o prima di essa (Retract., 1, 3). Le idee divine sono da Agostino avvicinate alle ragioni seminali di cui parlavano gli Stoici (§ 93). L'ordine del mondo che dipende dalla divisione delle cose in generi e specie, è garantito appunto dalle ragioni seminali, che, implicite nella mente divina, determinano, nell'atto della creazione, la divisione e l'ordinamento delle cose singole. Alcuni Padri della Chiesa, per esempio Origene, ritenevano che la creazione del mondo fosse eterna non potendo essa implicare un mutamento nella volontà divina. Il problema si presenta anche ad Agostino. «Che cosa faceva Dio prima di creare il cielo e la terra?». Si potrebbe rispondere scherzosamente: «Preparava l'Inferno per chi vuol saper troppo»; ma sarebbe un eludere con lo scherzo un problema serio. In realtà, Dio è l'autore non solo di ciò che esiste nel tempo, ma del tempo stesso. Prima della creazione non c'era tempo: non c'era dunque un «prima» e non ha senso domandarsi che cosa Dio facesse «allora». L'eternità è al disopra di ogni tempo: in Dio nulla è passato e nulla è futuro perché il suo essere è immutabile e l'immutabilità è un presente eterno in cui nulla trapassa. Ma che cosa è il tempo? Certamente, la realtà del tempo non è nulla di permanente. Il passato è tale perché non è più, il futuro è tale perché non è ancora; e se il presente fosse sempre presente e non trapassasse continuamente nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Nonostante questa fuggevolezza del tempo noi, però, riusciamo a misurarlo e parliamo di un tempo breve o lungo, sia passato sia futuro. Come e dove effettuiamo questa misura? Agostino risponde: nell'anima. Non si può certo misurare il passato che non è più, o il futuro che non è ancora; ma noi conserviamo la memoria del passato e siamo in attesa del futuro. Il futuro non c'è ancora, ma c'è nell'anima l'attesa delle cose future; il passato non c'è più, ma c'è nell'anima la memoria delle cose passate. Il presente è privo di durata e in un istante trapassa, ma dura nell'anima l'attenzione alle cose presenti. Il tempo trova nell'anima la sua realtà: nel distendersi (distensio) della vita interiore dell'uomo attraverso l'attenzione, la memoria e l'aspettazione, nella continuità interiore della coscienza che conserva dentro di sé il passato e si protende verso il futuro. Partito alla ricerca della realtà oggettiva del tempo, Agostino giunge invece a chiarirne la soggettività. Ancora una volta il ripiegarsi della coscienza su se stessa appare come il metodo risolutivo di un problema fondamentale. La polemica contro il manicheismo La raggiunta determinazione della natura del peccato poneva in grado S. Agostino di affrontare il problema del male nel mondo e di combattere vittoriosamente le affermazioni dei Manichei. Ciò che secondo S. Agostino smentisce inconfutabilmente il principio stesso del manicheismo è il carattere fondamentale di Dio: l'incorruttibilità che a Dio è propria in quanto è lo stesso Essere. L'argomentaziane del suo amico Nebridio faceva vedere il contrasto tra questo carattere della divinità e la tesi dei Manichei. Questi ammettevano che Dio dovesse combattere eternamente con il principio del male. Ma se il principio del male può nuocere a Dio, Dio non è incorruttibile, perché può subirne l'offesa. E se non gli può nuocere manca qualsiasi motivo perché Dio debba combattere (Conf., VII, 2). Sicché il riconoscimento dell'incorruttibilità di Dio toglie ogni fondamento all'affermazione manichea di un principio del male; ma nello stesso tempo ripropone in tutta la sua urgenza e grandiosità il problema del male nel mondo. Se Dio è l'autore di tutto ed anche dell'uomo, donde deriva il male? Se del male è autore il diavolo, donde deriva il diavolo stesso? Se il male dipende dalla materia di cui il mondo è formato, perché Dio nell'ordinarla lasciò in essa un residuo di male? Quale che sia la soluzione a cui si ricorre, la realtà del male contraddice alla bontà perfetta di Dio: non rimane dunque che negare la realtà del male; e tale è la soluzione per cui si risolve Agostino. Tutto ciò che è, in quanto è, è bene. Anche le cose corruttibili sono buone, giacché se tali non fossero non potrebbero, corrompendosi, perdere la loro bontà. Ma a misura che si corrompono, esse non perdono la bontà soltanto, ma anche la realtà; giacché se perdessero la bontà continuando ad essere, arriverebbero a un punto in cui sarebbero prive del tutto di bontà e tuttavia reali: quindi incorruttibili. Ma incorruttibile è Dio ed è assurdo supporre che le cose corrompendosi si avvicinino a Dio. Bisogna dunque ammettere che a misura che si corrompono, le cose perdono la loro realtà, che il male assoluto è il nulla assoluto e che l'essere e il bene coincidono (Conf., VII, 12 sgg.). Non vi può essere dunque altro male al mondo se non il peccato e la pena del peccato. Ora il peccato consiste, come si è visto, nella deficienza della volontà che rinunzia all'essere e si attacca a ciò che è inferiore. Come non è un male l'acqua, mentre invece è un male il precipitarsi volontariamente nell'acqua, così nessuna cosa creata, per quanto umile sia, è un male; ma è male l'attaccarsi ad essa come se fosse l'essere e rinunciare per essa all'essere vero (De vera red., 20). Dalla tesi manichea che faceva del male non soltanto una realtà, ma un principio sostanziale del mondo, S. Agostino è giunto alla tesi opposta: la negazione totale della realtà o sostanzialità del male e la riduzione di esso alla defezione della volontà umana di fronte all'essere. Il male non è dunque realtà neppure nell'uomo giacché è defezione, deficienza, rinunzia, non-decisione, non-scelta; anche nell'uomo è dunque nonessere e morte. Nel peccato Dio, che è l'essere, abbandona l'anima, proprio come nella morte del corpo l'anima abbandona il corpo (De civ. Dei, XIII, 2). La polemica contro il donatismo La seconda grande polemica di Agostino è quella contro il donatismo. Si tratta di una polemica che condusse Agostino a chiarire vigorosamente punti fondamentali della sua costruzione religiosa. Il donatismo (così chiamato da Donato di Case Nere, uno dei suoi corifei), quando Agostino fu consacrato vescovo, dilagava nell'Africa romana da circa un secolo. Era un movimento scismatico fondato sul principio dell'assoluta intransigenza della Chiesa di fronte allo Stato. La Chiesa è una comunità di perfetti che non devono avere contatti con le autorità civili. Quelle autorità religiose che tollerano tali contatti perdono la capacità di amministrare i sacramenti, e i fedeli devono ritenerli traditori e rinnovare il battesimo e gli altri sacramenti ricevuti da esse. Queste affermazioni dei Donatisti rendevano impossibile ogni gerarchia ecclesiastica perché davano a qualsiasi fedele il diritto di indagare i titoli del suo superiore gerarchico e di negargli, ove lo credesse opportuno, obbedienza e disciplina. Inoltre, legando il valore dei sacramenti alla purezza di vita del ministro, esponevano i sacramenti stessi ad un dubbio continuo. Stabilivano infine tra la Chiesa e lo Stato un'antitesi che isteriliva l'azione della Chiesa in una pura negazione. Contro il donatismo, Agostino afferma la validità dei sacramenti indipendentemente dalla persona di chi li amministra. E' Cristo che opera direttamente attraverso il sacerdote e conferisce efficacia al sacramento che egli amministra; non può esservi quindi dubbio su tale efficacia. Inoltre la comunità dei fedeli non può essere ristretta a una minoranza di persone che si isolano dal resto dell'umanità. «Il sangue di Cristo fu il prezzo per l'universo, non per una minoranza. Solo la Chiesa che ha innalzato le sue tende dovunque è vita civile, testimonia, con la sua stessa esistenza, la validità del Vangelo nel mondo. E questa Chiesa è la Chiesa di Roma». Così S. Agostino vedeva nell'universalità della Chiesa la dimostrazione di fatto del valore del messaggio cristiano, e nello stesso tempo difendeva questa universalità contro il tentativo di negarla e di ridurre la comunità cristiana, come volevano i Donatisti, ad una conventicola d'isolati. La polemica contro il pelagianesimo La terza grande polemica agostiniana è quella contro il pelagianesimo. E' la polemica che ha avuto la maggiore portata nella formulazione della dottrina agostiniana, conducendo Agostino a fissare con straordinaria energia e chiarezza il suo pensiero sul problema del libero arbitrio e della grazia. Il monaco inglese Pelagio viveva a Roma nei primi anni del secolo V Lì ebbe la prima volta sentore della dottrina agostiniana della grazia espressa nella famosa invocazione a Dio: «Concedi quel che comandi e comanda pure ciò che vuoi» (Da quod iubes et Tube quod vis). Venuto poi Pelagio a Cartagine con l'amico Celestio, quando all'avvicinarsi dei Goti molte famiglie romane si rifugiavano in Africa, le sue critiche all'agostinismo si diffusero per opera soprattutto di Celestio nel gregge stesso del vescovo Agostino. Il punto di vista di Pelagio consisteva essenzialmente nel negare che la colpa di Adamo avesse indebolita radicalmente la libertà originaria dell'uomo e quindi la sua capacità di fare il bene. Il peccato di Adamo è solo un esempio cattivo che pesa bensì sulle nostre capacità e rende ad esse più difficile il cómpito di operare il bene, ma non lo rende impossibile e soprattutto non toglie ad esse la possibilità di reagire e decidersi per il meglio. Per Pelagio l'uomo, sia prima del peccato di Adamo, sia dopo, è naturalmente capace di operare virtuosamente senza bisogno del soccorso straordinario della grazia. Ma questa dottrina conduceva a ritenere inutile l'opera redentrice del Cristo. Se il peccato di Adamo non ha messo l'uomo nella impossibilità di salvarsi con le sole sue forze, l'uomo non ha evidentemente bisogno dell'aiuto soprannaturale portatogli dall'incarnazione del Verbo né quindi ha bisogno di essere reso partecipe di questo aiuto dall'opera mediatrice della Chiesa e dai sacramenti che essa amministra. Di fronte a una dottrina che si prospettava così rovinosa per la dogmatica cristiana e il compito della Chiesa, Agostino reagisce energicamente, affermando che con Adamo e in Adamo ha peccato tutta l'umanìtà e che quindi il genere umano è una sola «massa dannata», nessun membro della quale può essere sottratto alla dovuta punizione, se non dalla misericordia e dalla non dovuta grazia di Dio (De civ. Dei, XIII, 14). E per giustificare la trasmissione del peccato Agostino fu indotto a difendere sull'origine dell'anima, non il creazionismo (giacché non si può ammettere che Dio crei un'anima dannata), ma il traducianismo per il quale l'anima viene trasmessa di padre in figlio attraverso la generazione del corpo. La vigoria con la quale Agostino difese queste tesi lo portò a non esitare dinanzi a nessuna delle conseguenze di esse. Egli inclinò quindi a un pessimismo radicale sulla natura e la possibilità dell'uomo, ritenuto incapace di compiere il più piccolo passo sulla via dell'elevazione spirituale e della salvezza; e fu portato ad insistere sul carattere imperscrutabile della scelta divina che predestina alcuni uomi ni e danna gli altri. Ma per quanto queste conclusioni appaiano paradossali (e la stessa Chiesa cattolica dovette mitigarne il rigore) non c'è dubbio che il principio sul quale S. Agostino le fonda ha nella sua dottrina un alto valore, del tutto indipendente dalla polemica antipelagiana. Questo principio è l'identità della libertà umana con la grazia divina. La volontà, secondo Agostino, è libera soltanto quando non è asservita al vizio e al peccato; ed è questa libertà che può essere restituita all'uomo solo dalla grazia divina (Ih., XIV, 11). Il primo libero arbitrio, quello che fu dato ad Adamo, consisteva nel poter non peccare. Perduta questa libertà per la colpa originaria, la libertà finale, quella che Dio darà come premio consisterà nel non poter peccare. Quest'ultima libertà sarà data all'uomo come un dono divino, giacché non appartiene alla natura umana, e renderà quest'ultima partecipe dell'impeccabilità propria di Dio. Ma poiché la prima libertà è stata data all'uomo affinché egli si procuri l'ultima e compiuta libertà, è evidente che solo quest'ultima esprime ciò che l'uomo veramente deve essere e può essere. Il non poter peccare, la liberazione totale dal male, è una possibilità dell'uomo fondata sul dono divino: «Dio stesso è la nostra possibilità» dice Agostino (Sol., 11, 1; De grazia Chr., 25). Queste parole di S. Agostino esprimono l'identità essenziale della libertà e della grazia. Ciò che nell'uomo è sforzo di liberazione, volontà tesa a cercare e ad amare Dio, è, nella sua ultima possibilità, l'azione gratificante di Dio. Agostino non può ammettere come facevano i Pelagiani o i Semipelagiani, una cooperazione dell'uomo con Dio, giacché l'uomo non è sullo stesso piano di Dio. Dio è l'Essere che gli dà esistenza, la Verità che dà legge alla sua ragione, l'Amore che lo chiama ad amare. Senza Dio l'uomo non può che allontanarsi dall'essere, dalla verità e dall'amore, cioè peccare e dannarsi. Perciò egli non può avere meriti propri da far valere di fronte a Dio. I meriti dell'uomo non sono che doni divini; ed a Dio, non a sé, l'uomo deve attribuirli (De gratia et Libero arbitrio, 6). L'iniziativa non può appartenere che a Dio perché Dio, come Essere, Verità ed Amore è la sola forza dell'uomo. La grazia divina si rivela nell'uomo come libertà: come ricerca della verità e del bene, allontanamento dall'errore e dal vizio, aspirazione all'impeccabilità finale. Proprio la volontà umana di liberazione è l'azione di grazia. S. Agostino ha concepito il rapporto tra Dio e l'uomo nel modo più intrinseco; e così riconosce all'iniziativa divina tutti i caratteri positivi dell'uomo. La città di Dio La vita dell'uomo singolo è dominata dall'alternativa fondamentale: vivere secondo la carne o vivere secondo lo spirito. La stessa alternativa domina la storia dell'umanità. Questa è costituita dalla lotta di due città o regni: il regno della carne e il regno dello spirito, la città terrena o città del diavolo, che è la società degli empi, e la città celeste o città di Dio che è la comunità dei giusti. Queste due città non si dividono mai nettamente il loro campo d'azione nella storia. Nessun periodo della storia, nessuna istituzione è dominata esclusivamente dall'una o dall'altra delle due città. Esse non si identificano mai con i particolari elementi da cui la storia degli uomini è costruita, giacché dipendono soltanto da ciò che ogni singolo uomo decide di essere. «L'amore di sé portato fino al disprezzo di Dio genera la città terrena; l'amore di Dio portato fino al disprezzo di sé genera la città celeste. Quella aspira alla gloria degli uomini, questa mette al di sopra di tutto la gloria di Dio testimoniato nella coscienza... I cittadini della città terrena sono dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della città celeste si offrono l'uno all'altro in servizio con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale» (De civ. Dei, XIV, 28). Nessun contrassegno esteriore distingue le due città che sono mescolate insieme sin dall'inizio della storia umana e lo saranno sino alla fine dei tempi. Solo interrogando se stesso ognuno potrà scorgere a quale delle due città appartenga. Tutta la storia degli uomini nel tempo è lo sviluppo di queste due città: essa si divide in tre periodi fondamentali. Nel primo gli uomini vivono senza leggi e non vi è ancora lotta contro i beni del mondo; nel secondo gli uomini vivono sotto la legge perciò combattono contro il inondo, ma sono vinti. Il terzo periodo è il tempo della grazia in cui gli uomini combattono e vincono. Agostino distingue questi periodi nella storia del popolo d'Israele. Atene e Roma sono giudicate da S.Agostino soprattutto attraverso il politeismo della loro religione. Roma è la Babilonia di Occidente. Alla sua origine c'è un fratricidio, quello di Romolo, che riproduce il fratricidio di Caino dal quale è nata la città terrena. Le virtù stesse dei cittadini di Roma sono virtù apparenti, ma in realtà sono vizi perché la virtù senza Cristo non è possibile (Ib., XIX, 25). IL libro VIII del De civitate Dei è dedicato all'esame della filosofia pagana. Agostino si ferma soprattutto su Platone che chiama «il più meritamente famoso fra i discepoli di Socrate». Platone ha riconosciuto la spiritualità e l'unità di Dio, ma neppure lui lo ha glorificato e adorato come tale, anzi come gli altri filosofi pagani ha ammesso il culto politeistico (Ib., VIII, 11 ). Le coincidenze della dottrina platonica con quella cristiana sono spiegate da Agostino con i viaggi di Platone in Oriente durante i quali egli potette conoscere il contenuto dei libri sacri (Ib., VIII, 12). Quanto ai Neoplatonici si è visto come Agostino stesso sia stato indirizzato verso il cristianesimo dagli scritti di Plotino: essi hanno insegnato la dottrina del verbo ma non che il Verbo si è incarnato e si è sacrificato per gli uomini (Conf., VII, 9). Questi filosofi hanno indubbiamente intravisto, sia pure oscuramente, il termine dell'uomo, la sua patria celeste, ma non hanno potuto additarne la via che è quella segnata dall'apostolo Giovanni: l'incarnazione del Verbo (De civ. Dei, X, 29). Guadagnare navigando! Acquisti prodotti e servizi. Guadagnare acquistando online. Enciclopedia termini lemmi con iniziale a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Storia Antica dizionario lemmi a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z Dizionario di Storia Moderna e Contemporanea a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w y z Lemmi Storia Antica Lemmi Storia Moderna e Contemporanea Dizionario Egizio Dizionario di storia antica e medievale Prima Seconda Terza Parte Storia Antica e Medievale Storia Moderna e Contemporanea Dizionario di matematica iniziale: a b c d e f g i k l m n o p q r s t u v z Dizionario faunistico df1 df2 df3 df4 df5 df6 df7 df8 df9 Dizionario di botanica a b c d e f g h i l m n o p q r s t u v z |
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